“La vita è come andare in bicicletta: se vuoi stare in equilibrio devi muoverti”
A. Einstein
I FAGIOLI GRASSI
In fatto di colazioni robuste, i maseresi di una volta non conoscevano rivali. A casa mia funzionava così: in piedi all’alba, caffè, via con i lavori nella stalla e poi una colazione come si deve. Era la solida base di partenza per il tour de force quotidiano, che si concludeva, circolarmente, con il lavoro serale nella stalla.
Alle sette del mattino, nelle domeniche d’inverno, il Masero era un dipinto fiammingo: alberi spogli, cielo grigino, comignoli fumanti, strade e tetti gelati, tracce di neve e gente frettolosa. Alle sette? Sì. A quell’ora, più o meno, mungitura e pulizia erano finite. E per andare dove? Ma al forno, ovvio. Il forno del paese, gloriosamente e democraticamente gestito dalla comunità dei maseresi, con tanto di statuto.
Abbondanti fagioli borlotti ammollati in acqua per un giorno, sbollentati e scolati
Un soffritto di lardo, olio, aglio, cipolla, sedano e carota
Un rametto di rosmarino e due foglie di alloro
Un piutin e una quaietta
Sale, pepe, noce moscata
E dunque, fasoi gres. I maseresi di buona volontà li cuociono ancora nel forno comune, ogni tanto. Io non vivo più là e la mia tupina si accontenta di bollire sola soletta sulla stufa, ma il suo lavoro lo fa bene lo stesso e miei fasoi gres spariscono in un amen (non a colazione, lo ammetto).
Il sabato era il giorno del pane. Le famiglie, a turno, riscaldavano il forno, e tutti portavano a cuocere il proprio pane. Uscita l’ultima cesta fragrante, ecco che si ricominciava: chi portava cipolle ripiene, chi altri ortaggi o, raramente, carni: il calore rimasto bastava e avanzava a cuocere una pietanza domenicale. E d’inverno i menu domenicali maseresi si uniformavano al piatto sovrano: i fagioli grassi.
Una processione di tupine (o tofeie), le nostre grosse e panciute pentole di coccio, si infilavano nella bocca del forno il sabato sera e ne uscivano, bollenti e fumanti nel gelo, la domenica mattina: via di corsa a casa et voilà la colazione, una scodellona di fagioli fumanti. Altro che tè e fette biscottate. La tupina si esauriva poi a pranzo. Grassi davvero, quei fagioli. Meravigliosi e inevitabili.
Tutti allevavano il maiale, e in inverno lo lavoravano. Lardo, piutìn (zampetto; peccato che il maiale ne avesse solo quattro) e quaietta (cotica salata, speziata e legata a rotolo, come i libri dell’antichità; aveva un secondo nome sarcastico: preve, prete) erano il sostanzioso condimento prescritto per i fasoi gres. E tutti coltivavano fagioli in abbondanza tra le file del mais, li lasciavano seccare e ne avevano per tutto l’anno.
Si mette tutto nella tupina (o in una meno nobile pentola qualsiasi, meglio non di acciaio perché tende a far bruciare il fondo: sapore orrendo garantito), si copre di acqua e si mette a cuocere a fuoco bassissimo, meglio se sulla stufa o in forno, fino a quando la quaietta è morbida.
Si mescola ogni tanto, cercando di non spappolare troppo i fagioli.
Si assaggia, eventualmente si sala ancora, e poi si resiste alla tentazione di mangiarsene una scodella fuori pasto!
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