“La vita è come andare in bicicletta: se vuoi stare in equilibrio devi muoverti”
A. Einstein
ovvero: lepre in salmì
Da millenni noi umani ci domandiamo quale forza diriga le nostre cose: volontà divina? Destino? Caso?
Chissà. Certo, però, esistono relazioni così forti da sembrare proprio volute dal destino, se non addirittura da una divinità: una è quella tra la polenta e la lepre. Per lo meno, io la vedo così .
Mi spiego. Fino a un mezzo secolo fa, al Masero, come del resto un po’ in tutto il Canavese, le famiglie contadine collaboravano nei lavori più impegnativi (fienagione, semina, mietitura, vendemmia..), più o meno regolarmente. Noi, regolarissimamente. Noi chi? La mia famiglia e quella della mia zia materna, Caterina, la magna Catera. Arrivava l’autunno, il granoturco era maturo, bisognava raccoglierlo: a mano, ovvio. Tutti schierati, grandi e piccoli, in fila tra le file di quegli stocchi alti, secchi e polverosi, a staccare pannocchie. Che fastidio quelle foglie dal bordo tagliente, e che barba quello scagnat, lo sgabellino che usavamo io e la mia gemella, piccole di età e quindi di statura. Ma ci davamo dentro, ci piaceva sapere che quelle pannocchie sarebbero diventate la farina per la polenta. In più, ci animava l’eccitazione: il barba Miclin, lo zio Michele marito della magna Catera, non mancava mai di portare con sé il fucile, e di tanto in tanto abbandonava un attimo il campo per un giretto ai margini del bosco, a caccia della lepre.
Una lepre pulita e tagliata a pezzi, meglio se regolari
Carota, cipolla e sedano a pezzetti e in abbondanza
Tendevamo l’orecchio, ansiose ma fiduciose, aspettando l’immancabile pum!: evviva! Presa! Garantito il pranzo dalla magna Catera: menu, ovviamente, polenta e lepre. Lepre obbligatoriamente in salmì (questo, al Masero, era un dogma indiscusso), e la nostra magna era la regina della levra al sivè.
Una scia di profumino speziato ci guidava da lontano verso casa sua, e poi ecco lì sulla stufa, vicino al paiolo della polenta, quel trionfo di carne tenera in un lago di sugo reso denso e scurissimo anche da un ingrediente oggi sentito come inquietante: il sangue della lepre.
Poi i decenni passano, il destino vuole che l’ex bimba viva con un cacciatore di lepre, ed ecco che mi ritrovo ad ereditare la corona e la ricetta della magna Catera. Così anche sulla mia stufa ogni tanto il fato torna a riunire polenta e lepre. Il mio sivè è più verduroso, meno vinoso, e il sangue non c’è proprio, ma in sostanza ingredienti e procedimento sono quelli.
Prima fase: colloco la lepre in un grilat (grossa ciotola), unisco i “gusti” e qualche chiodo di garofano, ricopro di vino rosso, chiudo bene, metto al fresco per 24 ore.
Seconda fase:
tiro su la carne e butto la marinata (Ah ma ceta! Ah ma ragazza, cosa combini, si ribellerebbe la magna Catera, ma i gusti cambiano…); in una pentola larga faccio colorire la carne a fuoco alto con l’olio o il burro, poi aggiungo le verdure, due chiodi di garofano, sale, pepe, peperoncino e un mazzetto di “gusti”. Una bella mescolata, un paio di bicchieri di vino, l’acqua necessaria a coprire tutto per bene. Coperchio, pentola sulla stufa a fuoco lento lento, una controllatina ogni tanto, nuova acqua se serve. La lepre è pronta quando la carne è tenera e si stacca dall’osso.
Lo sapeva anche la magna Catera che certi leproni vecchi richiedono ore e ore di cottura, ma, come me, non si spaventava per così poco. E ottimizzava l’uso del tempo girando la polenta.
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