Nomi inquietanti, per noi del terzo millennio. I contadini maseresi di una volta, invece, non battevano ciglio neanche di fronte al termine scanura, che è proprio quello che sembra, anche a un orecchio non canavesano: la scannatura. Scannatura?! E già, del maiale. Per secoli, prima che circa cinquant’anni fa si introducesse l’uso compassionevole e benvenuto della pistola da macellaio, il maiale si è ucciso così, con un taglio alla gola.
Era una scena brutale ma che tutti sapevamo inevitabile e accettavamo senza ipocrisia. Come pure quella, immediata, della raccolta del sangue, da usare poi per varie preparazioni, scanura compresa. Di solito era una donna a sporgere il secchio sotto il violento getto del sangue; l’ho fatto anch’io più volte.
Per evidenti motivi, dunque, era detta scanura la carne del collo del maiale, e per estensione anche il piatto che ne derivava. Piatto sempre accompagnato dalla polenta, e sempre consumato il secondo giorno di lavorazione del maiale.
Parentesi: il maiale si lavorava con l’aiuto dei parenti a cui si era più legati, nel nostro caso la famiglia della mia zia materna, Caterina, la magna Catera. Era una faccenda tradizionalmente maschile e ci volevano almeno tre o quattro uomini. Le donne di casa erano di supporto: io e la mia gemella ricordiamo, per esperienza personale, un frenetico lava-asciuga-pulisci-porta-sposta-rimesta, nello spazio ristretto della cucina, ridotta ad antro surriscaldato saturo di odori, vapori e presenze umane. La nostra sauna annuale. Chiusa la parentesi.
Generalmente ci volevano quattro giorni, e funzionava così.
Primo giorno: uccisione del maiale, spesso pomeridiana. Estrazione e pulitura delle interiora, raschiatura di peli e pelle, divisione dell’animale in due mezzene.
Secondo giorno: smontaggio della carcassa e preparazione della carne per tutti i preziosissimi prodotti: il salame, il salame di patate, il cotechino, la salsiccia, la coppa, la pancetta, il lardo, le cotiche, i ciccioli e lo strutto, le ferse (polpette). Pranzo: scanura e turta ad sang, torta di sangue. Piatto buonissimo ma impressionante anche quest’ultimo. Sa di rito primordiale, fatto com’è di pane, latte e sangue.
Terzo giorno: realizzazione dei prodotti appena elencati. Pranzo: risotto condito con la pasta del salame, costine bollite con insalata, generalmente di cavolo. E poi, a gloriosa conclusione della giornata clou, la saina dal purcat, la cena del maiale. Un vero e proprio rito in onore della dea Abbondanza, che univa intere famiglie e segnava una delle rare occasioni, nell’anno, per pasteggiare nella “sala” anziché in cucina: segno di “festa grossa”.
Quarto giorno: torna la normalità. Senza aiuti esterni, la famiglia prepara i ciccioli e lo strutto e completa la sistemazione dei prodotti.
Torniamo al giorno della scanura. Si era in tanti, a pranzo. Per questo, e per sfruttare tutto ma proprio tutto, dell’animale, alla scanura vera e propria si aggiungevano le frattaglie: cuore, reni, parti di polmone e di fegato. E anche qualche pezzo di carne che, come come la scanura, fosse mista di grasso e magro e perciò non adatta a confezionare il salame, il prodotto sovrano, preparato esclusivamente con le carni più scelte.
Si buttava tutto in una larga pentola con un po’ di soffritto e l’immancabile rosmarino, si aggiungevano sale, pepe e le spezie del salame, una bella dose di vino rosso, e via a cuocere pian piano sulla stufa. Alla fine, un bel mestolo di sangue: ecco come la bagna diventava bruta, naira. Una specie di spezzatino molto sugoso, dal profumo, colore e sapore intensissimi, perfetto con la polenta.
spezzatino di maiale
sedano
cipolla
carota
E oggi? Eh be’, si semplifica, un po’ per forza e un po’ per scelta.
Io faccio così. Prendo una bella dose di spezzatino di maiale, meglio se ricavato dalla carne del collo, perchè succulenta e gustosa. Se lo trovo, prendo anche il cuore, che ha consistenza e sapore piacevoli, e un po’ di fegato. Polmone (gommoso) e rene (odorino sospetto) fingo di dimenticarli. Preparo in una pentola larga e alta un soffritto con sedano, carota, cipolla e aglio, butto la carne (tranne il fegato, che aggiungo verso fine cottura), faccio colorire a fuoco vivace, sfumo con due bei bicchieri di vino rosso, aggiungo sale, pepe, noce moscata, un mazzetto con rosmarino, salvia e alloro, e acqua a coprire. Lascio cuocere a fuoco basso fin quando la carne è tenera e il sugo è addensato.
“La vita è come andare in bicicletta: se vuoi stare in equilibrio devi muoverti”
Questo racconto e questa ricetta fanno parte di una sintetica raccolta, che noi abbiamo voluto chiamare “Strenna di Capo d’Anno” perchè è un dono, un regalo, che la Tiri ci “tramanda” e ci “consegna”, preziose ricette contadine e preziosi ricordi che non possono essere dimenticati. Buona lettura!
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